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Ad un mese dalla dichiarazione di emergenza sanitaria, con il susseguirsi di DPCM che hanno regolamentato le azioni di contrasto alla pandemia e le nostre vite, come Coordinamento COBAS delle TLC, abbiamo avviato una discussione sul presente e su futuro del nostro settore.

Una riflessione che si è resa necessaria per alcune ragioni principali che determinano due filoni di ragionamento:

1) il settore TLC si è imposto come strategico, ancor di più in una condizione di isolamento sociale, atomizzazione del lavoro tecnologico (smart working) e con una menzione specifica per i CALL CENTER definiti come attività essenziale;

2) l’impatto economico che si avrà nel settore tenuto conto della complessità delle aziende che lo compongono e le previsioni di recessione che inevitabilmente si avranno.

Veniamo al primo punto. Si riscontra una dicotomia fra quello che il Governo proietta nell’immaginario del Paese – attraverso l’estensione dell’obbligo di smart working sia nei settori pubblici che privati – e la reale situazione delle infrastrutture, cui si accompagnano le condizioni nelle quali le lavoratrici e i lavoratori del settore sono costretti ad operare per garantire l’accesso ai servizi di TLC.

In questa situazione, non lo neghiamo, c’è molto di quello che riteniamo “il nostro cavallo di Battaglia”: un’Azienda di TLC pubblica che garantisca la copertura di tutto il DIGITAL DIVIDE. Se pensiamo che solo un paio di anni fa TIM era data per spacciata e spezzettata – a fronte delle decisioni improprie del Governo Renzi di creare una concorrenzialità di stato nella gestione della rete telefonica con OPEN FIBER – mentre oggi il Governo Italiano può decidere di intervenire (anche in forza del 10% di presenza di CDP nel capital azionario) possiamo ben dire l’obiettivo che ci eravamo fissati di TELECOM ITALIA UNICA e PUBBLICA è ben lungi dal poter essere considerata solo una eresia.

In un contesto come l’attuale – dove passiamo il tempo a fare la conta dei morti – si cerca di mettere la prima “toppa” chiedendo alle figure tecniche che operano materialmente sulla rete (dalle centrali fino alla casa dell’utente finale) di entrare nelle case dei clienti per garantire la connessione ad una fetta sempre più ampia della popolazione e si indicano i CALL CENTER come servizi strettamente necessari, perché nell’era delle TLC ci si accorge che la maggior parte dei servizi pubblici e privati non sono più gestiti allo sportello fisico, ma appaltati esternamente (INPS, ENI, ENEL, TLC, BANCHE, CUP SANITA, CAF, AGENZIA DELLE ENTRATE, ECC…)

Queste attività essenziali sono svolte nel campo tecnico da lavoratori e lavoratrici spesso alle prese con la concorrenza delle imprese degli appalti e, nel “ramo” call center, da persone dai profili professionali più bassi, spesso relegati in un part-time che ha compresso i salari, cui aggiungiamo un CCNL che non viene rinnovato da 7 anni.

Inoltre in questa fase di lavoro di smart working casalingo, dispiegato e continuativo, senza una equilibrata regolamentazione (tranne rare eccezioni), il lavoratore si è caricato anche dei costi industriali (energia elettrica, connessioni, hardware). Crediamo sia necessario, una volta usciti dall’emergenza, riconoscere una volta per tutte, da una parte, i sacrifici, le disponibilità, l’accettazione di svolgere un lavoro professionale malpagato e stressante, e dall’altra almeno i costi sopportati per garantire la continuità del servizio alle aziende pubbliche e private.

Nell’immediato, per finire, c’è una larga fetta di addetti nel settore che va ancora messa in sicurezza, perché costretta in grandi concentrazioni organizzative, e qui si pone il problema di fornire il presidio sindacale, dove non già organizzato, per far rispettare le normative di contenimento anti-contagio e le più elementari normativa sul lavoro.

Veniamo al secondo punto. Si evidenzia una certa divaricazione di prospettiva: la crisi sanitaria di certo sarà madre di una crisi economica e sociale che investirà anche il “nostro” settore, scremando le aziende più fragili e meno strutturate, probabilmente rafforzando gli operatori maggiori che fagociteranno clienti, attività, strumenti in questa fase difficile di mercato. Un esempio importatane sono le deroghe già riconosciute alla TIM per quanto riguarda la diffusione della propria rete in fibra sulle aree che prima gli erano negate.

Già ora, una fetta di queste aziende sfrutta l’opportunità creata dalla crisi sanitaria per speculare sui salari dei propri dipendenti mettendoli in CIGO, CIGS e FIS, approfittando della diffusione dello smart working per ristrutturare sé stessa.

Abbiamo bisogno che si ponga di nuovo l’attenzione sulla tutela delle figure oggi chiamate a garantire i servizi essenziali del Paese e sugli strumenti che ne difendano la qualità e l’occupazione. Nessun posto di lavoro deve essere perso: va introdotto il blocco dei licenziamenti per almeno 18 mesi, successivamente alla presentazione dei bilanci 2020.

La CIG/FIS non copre l’intera retribuzione netta, addirittura fino a dimezzarla, ed è per questo che abbiamo chiesto formalmente al Governo di intervenire con un’integrazione che ne garantisca la pienezza.

Infine va avviato un ragionamento complessivo sulla applicazione rapida della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, che possa coprire anche il gap culturale ed organizzativo con le aziende europee. L’introduzione dello smart working, unito all’intelligenza artificiale, i selfmade del canale web, l’oggettivo salto tecnologico che si annuncia (legato al sempre più determinante ruolo di TIM) sia nella gestione delle reti, sia in quella dei cosiddetti DATACENTER, dove pubbliche amministrazioni e privati potranno conservare e gestire dati, ci proiettano verso un futuro complessivo di disoccupazione sia nel settore che nell’indotto.

È per questo che riteniamo di poter indicare alcuni temi su cui avviare la discussione nel settore.

Reddito universale e incondizionato. È la condizione indispensabile per sostenere immediatamente l’enorme platea di disoccupati e precari che si creeranno in generale e soprattutto nel settore.

Lo strumento avrebbe l’obiettivo di fornire un sostentamento fuori dal ricatto produttivo a tutti i costi, ma anche di contribuire alla lotta al lavoro nero e quindi ad una qualità del lavoro e della contribuzione fiscale degna di un paese democratico, restituendo dignità ai soggetti colpiti nonché riconoscimento della attività dichiarate essenziali.

Va detto che i bassi salari istituiti nella cosiddetta new economy sono anche il parametro sul quale valorizzare strumenti simili già in essere come il reddito di cittadinanza, che soffre di troppe inutili condizionalità. Per questo una lotta per gli aumenti salariali deve essere legato ad una battaglia sul reddito che abbia un ammontare dignitoso e di certo superiore al miraggio dei 750 €, slegato appunto dalle pretestuose condizionalità.

Inoltre avremo bisogno, a valle delle misure immediate fin qui descritte, di rendere strutturali delle proposte per far fronte alla crisi economica e sociale. Se questa governance vuole essere coerente con la propaganda messa in campo per ottenere totale obbedienza alle proprie politiche, allora si renderà necessario operare in controtendenza rispetto agli ultimi anni, sia per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro, sia le strutture delle filiere produttive.

Il primo provvedimento dovrebbe essere la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Rivendicazione troppo poco presente nelle trattative sindacali e che deve, invece, diventare un terreno di battaglia anche culturale di tutti i lavoratori e le lavoratrici, oltre che di una politica che vuole adottare misure di salvaguardia per l’occupazione di fronte alla perdita di posti di lavoro prodotti dalla crisi Covid-19, per la quale si prevedono 9,1% in meno di PIL. Si tratta di una richiesta necessaria anche in virtù di quello che si determinerà a seguito della sempre più diffusa automazione e dell’applicazione dell’intelligenza artificiale.

Il secondo provvedimento, in coerenza con quanto stabilito indirettamente da questa crisi, dovrebbe essere l’internalizzazione di tutti i Call Center che lavorano in subappalto per i servizi di pubblica utilità, per questo considerati essenziali come ENEL, INPS, Acea, CUP, ecc. Questo consentirebbe non solo di stabilizzare la spesa e gli investimenti nei servizi indispensabili per la collettività, garantendone la continuità di fornitura e assistenza, ma finalmente si porrebbe fine al dumping salariale scatenato con le aste al ribasso per gli appalti, con la conseguenza di uno sfruttamento senza regole e senza diritti dei lavoratori.

Terzo provvedimento da introdurre per un sostegno alla ripresa del paese, chiudendo con le politiche che ne hanno avvizzito la crescita e lo sviluppo omogeneo, è una calmierazione o riduzione dei costi legati ai servizi considerati essenziali (Acqua, Luce, Gas, TLC, Trasporti Urbani, ecc.). Le privatizzazioni prodotte, interamente o parzialmente, hanno fatto nascere cartelli speculativi a danno dei consumatori e hanno portato alla negazione di forniture ai soggetti economicamente fragili, lasciando, come nel caso delle TLC, interi territori senza la possibilità di accedere ai servizi di connettività. Una situazione come quella attuale dimostra tutta la miopia di queste scelte.

Il quarto provvedimento, infine, dovrebbe essere il potenziamento, in termini di finanziamenti ed organico, dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro (SPreSAL) delle Aziende sanitarie locali, che si occupano di vigilanza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, di concerto con il ri-potenziamento della medicina di territorio e di quella ospedaliera. Se l’emergenza Coronavirus ha reso evidenti le drammatiche conseguenze di decenni di politiche di tagli nella Sanità pubblica, di fronte alla spinta di Confindustria per “riaprire tutto” subito, diventa determinante avere a disposizione un servizio pubblico che sia in grado di monitorare l’applicazione delle corrette misure di protezione e prevenzione in capo alle aziende.

Come lavoratori e lavoratrici delle Tlc, riteniamo che solo l’intervento pubblico possa garantire l’uso sociale dei “servizi essenziali” ed evitare che questi possano diventare fonte di lauti profitti per consorterie private. Una politica di sviluppo reale, piuttosto che distribuire 400 miliardi alle imprese e solo 25 in forme più o meno efficaci di sostegno al reddito, dovrebbe disporre investimenti nelle infrastrutture e nei servizi considerati essenziali, garantendone la fruizione per tutti i suoi cittadini in ogni territorio del Paese, compresi coloro che sono disoccupati e quindi privati di un salario.

Con l’investimento, ad esempio, di 400 miliardi nei “servizi essenziali” l’interesse pubblico tornerebbe protagonista. Inoltre, proprio perché essenziali e distribuiti a tutti, e quindi a canoni sociali e prezzi calmierati, questi servizi garantirebbero la remunerazione di questi investimenti. Al contrario, regalare 400 miliardi alle imprese e far garantire questa esposizione finanziaria allo Stato, significa che quando un’azienda non vorrà o non potrà onorare il proprio debito, costringerà nei fatti lo Stato a tagliare la spesa pubblica, cioè quei residui di Welfare State che ci sono rimasti.

Mettiamo questi temi e queste proposte a disposizione come contributo al dibattito della Confederazione, a disposizione di un confronto aperto con le lavoratrici e i lavoratori, le soggettività e le OO.SS. interessate ad intrecciare strade e percorsi per una ripresa post crisi sanitaria che non sia solo sulle spalle di chi vive del proprio salario o chi non accede nemmeno a questo.

Roma 23/04/2020

Coordinamento TLC – COBAS LAVORO PRIVATO